Questo testo è la trascrizione della conferenza dal titolo omonimo
tenuta da Massimo Passamani a Rovereto il 5 dicembre 2000. La serata sul
carcere faceva parte di tre incontri sul controllo sociale e i suoi
nemici. Le altre due conferenze del ciclo di incontri vertevano sulle
biotecnologie e sulla criminalizzazione degli immigrati.
Qualche parola prima di entrare nell'argomento di questa sera: il
carcere e il suo mondo. Innanzitutto, non sarà una riflessione di taglio
storico, su quelle che sono le cause storiche del carcere, perché su
questo argomento ci sono già molti libri che fanno ormai addirittura
parte della normalità accademica; ci sono fior fior di tesi di laurea
sul carcere, tanti testi che dimostrano il
legame stretto che esiste fra
la nascita e lo sviluppo del capitalismo e la nascita e la
trasformazione del carcere, quindi il rapporto tra fabbrica, clinica,
prigione e così via. Testi più o meno approfonditi che esistono in
quantità abbondanti, talvolta piuttosto interessanti e rispetto ai quali
non avrei molto da aggiungere. Quindi non è un taglio di quel tipo che
mi interessa: chi si aspetta una conferenza di questo tipo penso che
rimarrà deluso. E anche sul rapporto tra il carcere e la società di
oggi, cioè su tutto quel sistema sociale che ruota attorno alle
prigioni, anche su questo la riflessione sarà piuttosto sbrigativa, non
sarà un approfondimento specifico. Quello che mi interessa, invece, è
una riflessione di tipo etico, intendendo per etica un modo di essere,
un modo di abitare e un modo di autodeterminarsi, cioè di scegliere gli
strumenti e le finalità dei propri rapporti. Quindi un concetto di etica
che assume in sé le due accezioni del termine, cioè l'etica come
dimensione individuale (quell'insieme di valutazioni che ogni individuo
dà circa le proprie scelte, il senso della sua vita, dei suoi rapporti,
eccetera) e anche una dimensione per così dire collettiva, cioè relativa
a quello spazio in cui queste scelte, queste valutazioni, questi
rapporti si realizzano, si modificano. Due accezioni che coesistono
nelle parole stesse che utilizziamo per esprimere questi concetti. Sia
etica sia morale, infatti, rinviano a un concetto di costume, di norme
sociali, di genius loci, cioè di usi legati a una determinata zona; allo
stesso tempo, e sempre di più nell'ultimo secolo, il concetto di etica
rinvia a qualcosa di profondamente individuale, di singolare e attinente
all'unicità di ogni individuo. Questi aspetti saranno, penso,
copresenti all'interno di queste riflessioni. Riflessioni piuttosto
rapide, perché l'inventario delle questioni, dei problemi è molto ampio e
io non ho nessuna pretesa di esaurire gli argomenti.
Quattro punti su cui riflettere, niente di più. La domanda fondamentale,
quella che tutti i vari libri eludono sempre, lasciano ai margini
oppure tendono a confondere in modo più o meno efficace, questa domanda
radicale suona così: se il carcere significa punizione, castigo, pena,
evidentemente fa riferimento alla trasgressione di una determinata
regola (infatti la punizione interviene nel momento in cui la regola
viene trasgredita, violata). Ora, la trasgressione della regola rinvia a
sua volta al concetto stesso di regola, e cioè a chi decide - e come -
le regole di una società. Questa è la questione che i vari operatori del
settore, gli esperti non affrontano mai. Questa è la questione che
contiene tutte le altre e che se sviluppata fino in fondo rischia di far
crollare tutto l'edificio sociale e con esso le sue prigioni. Chi
decide, e come, le regole di questa società? È palese che tutte le
chiacchiere che vengono raccontate sul potere del cittadino ("il
cittadino, questa cosa pubblica che ha soppiantato l'uomo", diceva
Darien), sulla partecipazione diretta, si rivelano sempre di più per
quello che in sostanza sono, cioè menzogne. A decidere in questa società
e in tutte le società basate sullo Stato, sulla divisione in classi,
sulla proprietà, è una ristretta minoranza di individui i quali si
autonominano rappresentanti del "popolo" e che impongono, sulla base di
determinati poteri esecutivi (coercitivi), le loro regole. Questa
definizione piuttosto generica fa subito notare che regola e legge,
accordo e legge, non sono sinonimi. La legge non è una regola come le
altre, è un modo particolare di concepire e definire la regola: la legge
è una regola autoritaria, è una regola coercitiva, imposta per di più
da una ristretta minoranza. Ora, è possibile concepire un modo
completamente diverso per definire le regole, oppure, detto
diversamente, per prendere degli accordi. Quindi, se non c'è coincidenza
fra accordo e legge, la questione radicale è: come può un individuo o
un insieme di individui essere punito in base a regole coercitive,
quindi leggi, che non ha mai sottoscritto, che non ha mai liberamente
accettato, che non ha mai stabilito? Anche questa è una domanda
estremamente semplice, ma che non viene mai posta.
Ancora prima di porsi l'interrogativo di cosa significa concepire i
rapporti fra individui in termini di punizione, castigo, pena; ancora
prima di porsi questa domanda, bisogna chiedersi se è legittimo, giusto,
utile, piacevole che un individuo, un insieme di individui, siano
repressi, puniti, rinchiusi, torturati per la trasgressione di norme che
non hanno mai concepito né sottoscritto. È questa la questione
fondamentale a cui si tratta di trovare risposta, una risposta che è sì
teorica, ma che deve farsi poi spazio nella pratica. Ora, evidentemente,
nel modo stesso in cui pongo il problema in controluce si può notare
come io penso di affrontarlo.
Il libero accordo è la possibilità e la capacità che vari individui, più
o meno numerosi nel loro associarsi, hanno di stabilire in comune
determinate regole per realizzare le loro attività, attività di cui
controllano le finalità e gli strumenti. Senza questo controllo delle
finalità e degli strumenti del proprio agire non esiste nessuna
autonomia, che è appunto la capacità di darsi le proprie regole. Esiste
allora il dominio, l'essere diretti da altri, quindi lo sfruttamento.
Proprio perché questa società non si fonda sul libero accordo,
quest'ultimo si sviluppa solamente all'interno di piccoli gruppi dove
esiste la consapevolezza della possibilità di avere rapporti di
reciprocità, di libertà, quindi senza forme coercitive; ma al di là di
piccoli gruppi che, in modo conflittuale rispetto alla società, cercano
di vivere in questo modo, all'interno di questo ordine delle cose non
esiste una simile possibilità, perché appunto viviamo in una società
fondata sulla divisione in classi, sul dominio e sullo Stato che di
questa divisione in classi e di questo dominio è in qualche modo il
prodotto e il garante. Allora si capirà perché questa società ha come
suo centro la prigione, si capirà perché e per chi esiste questa
prigione. Ed è proprio partendo da questa riflessione che si può
cogliere il problema della punizione, quindi il problema del diritto e,
ancor più nel concreto, di quel codice penale su cui i giudici fondano
le loro sentenze che chiudono a chiave uomini e donne in ogni parte del
mondo, su cui i poliziotti trovano l'autorità per arrestare, i secondini
per sorvegliare, l'assistente sociale del carcere per invitare alla
calma e alla collaborazione, il prete per trovare materia funzionale
alle sue prediche sul sacrificio, sulla rinuncia, sulla colpa (tanto per
citare alcuni di coloro che garantiscono questo sistema sociale).
Partendo da questa riflessione ci si può rendere conto che all'interno
della presente società il carcere è un problema ineliminabile, perché il
problema del crimine, cioè della trasgressione delle norme coercitive
(le leggi) è un problema fondamentalmente sociale. Per dirla
diversamente: finché esisteranno i ricchi e i poveri, esisterà il furto;
finché esisterà il denaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti;
finché esisterà il potere, nasceranno sempre i suoi fuorilegge. Quindi,
rovesciando la questione, il carcere è una soluzione statale a problemi
statali, è una soluzione capitalista a problemi capitalisti. Il problema
del furto, cosi come di tutti quei crimini che tendono alla messa in
discussione dell'ordine sociale, quindi le rivolte, le resistenze, le
lotte insurrezionali, eccetera, ecco tutti questi problemi sono legati
alle radici stesse di questa società. È evidente che siamo ancora
nell'ambito delle domande. Le risposte possono venire soltanto da una
pratica sociale di cui è possibile delineare solo e soltanto alcune
prospettive. Proprio perché parlare di questi problemi cosi impostati
non ci permette di uscire da quel quadro sociale al cui interno soltanto
essi hanno un senso.
La storia del carcere si lega profondamente alla storia del capitalismo e
dello Stato, e quest'ultima si lega profondamente a tutte le
resistenze, a tutte le lotte, le insurrezioni e le rivoluzioni da parte
degli sfruttati, degli spossessati di tutto il mondo per sbarazzarsi
-talvolta con slanci di libertà reale e talaltre con ritorni a
repressioni ancora peggiori, ancora più brutali -, per sbarazzarsi del
capitalismo, del denaro, della proprietà, della divisione in classi,
dello Stato. Negli ultimi due secoli, perché sostanzialmente l'origine
del carcere per come lo conosciamo noi non va più indietro nella storia
(non che prima non esistesse il problema dell'esclusione, del bando
dalla società, o addirittura della tortura e dell'eliminazione fisica,
però il luogo concreto, spazialmente definito che è il carcere non
esisteva) il problema delle prigioni è stato presente in tutti i
movimenti di emancipazione, di trasformazione radicale della società. È
sempre stato presente nelle riflessioni e anche negli argomenti di
propaganda, i quali si potevano riassumere in questo modo: se
distinguiamo due tipi di crimine, (si trattava di una distinzione per
amore di chiarezza, perché in realtà il contesto sociale e le sue
trasformazioni sono sempre molto più complessi, molto più articolati e
quindi molto più difficili da catalogare), quelli che potremmo definire
di interesse, cioè legati al denaro, alla necessità all'interno di
questa società di avere denaro per sopravvivere, e quelli passionali.
Ora, è evidente -argomentavano questi rivoluzionari - che i primi, cioè
quelli di interesse, sono profondamente legati a questa società: per cui
o si immagina un mondo in cui non ci sono alcuni che accaparrano gli
strumenti, le ricchezze e tutto quello che è necessario per vivere e gli
altri che, spinti dal bisogno, sono costretti o a prostituirsi come
lavoratori salariati o ad allungare le mani per afferrare illegalmente
(dato che la legge sta dalla parte dei proprietari) le ricchezze, oppure
non ci sarà mai soluzione. Per quanto riguarda invece i crimini
cosiddetti passionali, che poi sono quelli più sventolati dalla
propaganda dominante per giustificare il carcere: anche quelli, come gli
stupri, che più offendono la coscienza di ciascuno; anche questi
crimini, se noi li guardiamo più attentamente, sono profondamente legati
alla società in cui viviamo, nel senso che sono il prodotto della
miseria affettiva, compresa quella sessuale, dell'assenza di rapporti
appaganti nella vita quotidiana, della miseria di rapporti umani in
generale; sono il prodotto di tutta quella tensione, di quello stress,
di quella rabbia che non vengono espressi e che ritornano, proprio come
un ospite indesiderato, sotto forma di tic nervosi, sotto forma di
presenza inconscia, di violenza stupida e gregaria. Anche questi
fenomeni - che sono poi quelli utilizzati sempre per rendere necessario,
nella mente di tutti gli sfruttati, il carcere con tutta la sua
struttura sociale, che vengono utilizzati come spauracchio per far
accettare la presenza dell'autorità e dell'ordine poliziesco - sono
dunque profondamente legati a questa società. Negli argomenti di quei
vecchi compagni, una società senza Stato e senza denaro, materialmente e
passionalmente ricca, avrebbe eliminato d'ufficio i cosiddetti crimini
di interesse e ridotto sempre più i cosiddetti crimini passionali. E
noi?
È evidente che il concetto di trasgressione, di violazione delle norme
rinvia a tutto quel pensiero filosofico, morale, giuridico, politico e
così via che si è costruito all'interno di questa società e che per
difendere questa società si è sviluppato, articolato, definito. Parlare
di carcere, insomma, non significa soltanto parlare della regola e
quindi porsi la domanda radicale che tutti eludono: chi la stabilisce,
in base a quali criteri, che cosa fare per affrontare un problema come
quello della sua trasgressione. Oltre a questo, bisogna chiedersi anche
cosa significa proiettare un modello di convivenza, di umanità rispetto
al quale poter giudicare non ortodosso, bollare in quanto
ortopedicamente deviante o moralmente inaccettabile ogni comportamento,
ogni scelta, ogni decisione che non si rifaccia, che non si assoggetti a
quel modello. Ho usato il concetto di "ortopedia" sia perché è un
concetto preciso nella riflessione dei vari criminologi, dei vari
esperti in devianze, sia perché anche etimologicamente è un concetto
interessante. La necessità di far camminare rettamente (questo significa
"ortopedia") rispetto ai percorsi che sono stati stabiliti dalla
società, di costringere alle sue strade, alle sue mete e ai suoi
ostacoli tutti gli individui, è la fonte inesauribile di tutte le
gabbie. Problema della regola, dunque, problema del modello che viene
ritenuto superiore agli individui concreti, che è anche un modo, questo,
di crearsi recinti nella testa, per rassicurarsi di fronte all'aspetto
multiforme e quindi pauroso della vita sociale. Questo modello agisce,
ad esempio, nel momento in cui determinati comportamenti, che offendono
profondamente il senso di umanità di ciascuno, vengono definiti inumani:
basta pensare che in tedesco inumano e mostro si esprimono con la
stessa parola (Unmensch). Tutto quello che è mostruoso viene definito
inumano per tenerlo lontano da sé; determinati atti, determinati
comportamenti sono bollati come inumani, oppure - e questo è il versante
penale, giuridico - criminali.
All'interno di questa società il carcere non va visto come qualcosa di
occasionale soltanto perché, in fondo, parlando della situazione
italiana, su 55 milioni di abitanti i carcerati sono circa 50 mila, una
cifra, questa, che potrebbe sembrare irrisoria rispetto a quello che sto
dicendo. In realtà, il carcere è un dato centrale, fondamentale di
questa società; esso è presente in tutta la società e non va confuso
soltanto con quegli edifici che fisicamente rinchiudono determinati
uomini e determinate donne. Perché è un perno fondamentale di questa
società? Proprio perché la repressione di cui il carcere è l'espressione
più radicale non va vista come qualcosa di distinto dal consenso
forzato, da quella pace sociale su cui si fonda l'ordine presente delle
cose, intendendo per pace sociale non la convivenza pacifica delle
persone, ma la convivenza pacifica tra sfruttatori e sfruttati, tra
dominatori e dominati, tra dirigenti ed esecutori. Ecco, la pace sociale
è questa condizione che viene prodotta da organi ben precisi come la
magistratura e la polizia, ma allo stesso tempo da tutte quelle
istituzioni - siano esse il lavoro, la famiglia, la scuola, il sistema
dei mezzi di comunicazione di massa, eccetera - che rendono impossibile o
estremamente difficile ogni pensiero critico e quindi ogni volontà di
trasformare radicalmente la propria vita; in breve, quella trama di
rapporti, di parole e di immagini che presenta l'attuale ordine delle
cose non come un prodotto storico, e dunque, come tutti i prodotti
storici, modificabile, ma come un dato naturale che nessuno ha la
possibilità né il diritto di mettere in discussione. Quindi, se noi
vediamo il carcere (e, più in generale, la repressione di cui il carcere
è il modello) come il prolungamento di quelle norme sociali che
quotidianamente ci impongono una sopravvivenza sempre più priva di
senso, allora vediamo che il carcere è uno spettro che viene agitato
contro gli irrequieti che potrebbero in un determinato momento della
loro vita decidere di farla finita con questo modo di sopravvivere, con
questo modo di stare legati in società, e battersi per conquistare una
libertà, una dignità differenti. Questo spettro viene continuamente
agitato contro gli occhi capaci di sguardi ulteriori, di slanci oltre le
gabbie sociali.
Purtroppo - ed è questo il paradosso della società in cui viviamo -
questi occhi sono pochi, perché già questo desiderio di ribellarsi è uno
sforzo, uno slancio che si conquista a fatica, perché a vincere,
spesso, non è neanche la paura del castigo, paura che tocca solo quelli
che per un motivo o per l'altro si pongono concretamente il problema di
trasgredire le regole in un modo che non conviene a questa società, per
tutti gli altri basta quel ricatto continuo e incessante che è il vivere
civile, il vivere sociale con tutti i suoi obblighi e le sue
prestazioni. Ancora prima di questa paura della punizione, cioè, la
repressione preventiva è l'incapacità di immaginare una vita diversa:
non avendo un'alternativa - non come modello sociale, ma come progetto
di vita, di modificazione dell'esistente -; non avendo questa
alternativa nella testa, non rimane che accettare questo mondo. Infatti
attualmente la propaganda dominante, per farci accettare questa società,
non usa quasi più gli argomenti dell'ordine giusto, accettato in base
ai sacrosanti principi della proprietà, del diritto, della morale (la
loro, evidentemente), ma dice più semplicemente e senza fronzoli: non
esiste nient'altro. Quindi, visto che questo altro non esiste, perché o è
già finito nella spazzatura della storia o è impraticabile, allora non
rimane che rassegnarsi e accettare questa società. Questa condizione più
che essere una condizione di consenso, intendendo per consenso
un'assentire consapevole, diretto e libero a determinate situazioni, a
determinati accordi, è quella di un consenso per difetto, cioè di un
non-dissenso: si vive in questa società semplicemente perché non si
riesce a immaginare e a praticare qualcosa di diverso. (E questo ci lega
nuovamente al discorso iniziale sulla differenza tra libero accordo -
condizione di reciprocità - e legge - condizione di gerarchia). Tutto
quello che questa società spaccia per Progresso,per meta da raggiungere,
è sempre più manifestamente impresentabile, perché i disastri prodotti
da questo modo di vita (sotto forma di oppressioni, di affamamento, di
catastrofi mascherate come naturali ma in realtà profondamente sociali)
sono sotto gli occhi di tutti. Il potere stesso, questa megamacchina in
cui la politica, l'economia, la burocrazia, il comando militare si
confondono, punta oggi su un discorso catastrofista: il mondo va verso
disastri consistenti, però, visto che siamo noi ad averli creati - ci
dicono i suoi esperti pagati per esserlo -, siamo anche i soli a
possedere le chiavi per risolverli. Cosi, all'interno di questo balletto
immobile fra disastri sociali e finti rimedi, a loro volta portatori di
futuri disastri, l'immaginazione viene congelata, colonizzata; nessuna
alternativa è possibile e quindi tutto procede per consenso in negativo,
per non-dissenso. Però evidentemente non tutti sono d'accordo con
queste regole.
Se prendiamo alla lettera l'ideologia dominante, quella liberale, ci
viene detto che il vivere sociale è il risultato di un contratto
stipulato non si sa bene quando né da chi, comunque da generazioni
passate, rispetto al quale le generazioni presenti non possono far altro
che adeguarsi: già questo è piuttosto indicativo del modo di concepire
gli accordi, stabiliti una volta non si sa bene da chi e che poi
dovrebbero legare (la legge, appunto) per il resto del tempo tutte le
generazioni future dell'umanità. Comunque queste scempiaggini sono state
raccontate anche da filosofi piuttosto accreditati e quindi si dice,
questo si impersonale che è tutti e nessuno, che questa società è il
frutto di un contratto. Ora, è evidente che quando esistono milioni di
individui (perché bisogna sempre ragionare con un occhio attento al
pianeta e alla storia, dal momento che il potere vuole spingerci a
ragionare in un eterno presente che non ha nessun riferimento con il
passato e soprattutto ci chiude gli occhi su come funziona il modello
democratico su scala planetaria) a cui si nega persino il minimo vitale,
questo contratto sociale è una presa in giro assassina. Quando si parla
di democrazia, non bisogna tener presente solo la televisione, gli
acquisti di natale, le nuove auto e le conseguenze che tutto ciò
comporta a livello sociale e anche psicologico; bisogna tener presente
anche i campi di lavoro forzato in Indocina, l'affamamento delle
popolazioni del sud del mondo, le guerre sparse sul pianeta, perché
tutto ciò è solo la periferia delle nostre cittadelle democratiche. Lo
stesso ordine capitalista democratico che assicura a determinati
sudditi, in vista di un determinato sviluppo politico, economico,
burocratico, un certo modo di vivere, ad altri impone di marcire nelle
riserve, nei ghetti. Se ci poniamo il problema di prendere alla lettera
quest'ideologia del contratto sociale -di cui le varie teorie
ortopediche sono il semplice corollario - è evidente allora che per chi
non ha di che vivere, per chi non è nemmeno considerato cittadino,
perché non ha i documenti in regola, perché non lo fanno entrare alle
frontiere, per chi è costretto in una condizione di clandestinità, di
invisibilità sociale, per donne e uomini come questi (e oggi sono
milioni) il presunto contratto è stato violato per sempre, dal momento
che non garantisce nemmeno i mezzi di sussistenza. Ora, persino filosofi
tutt'altro che libertari, tutt'altro che partigiani dell'emancipazione
individuale e sociale, sostenevano che quando un contratto viene violato
unilateralmente, chi ne subisce gli effetti ha tutto il diritto di
andarsi a prendere quei beni, quelle ricchezze, quelle condizioni che
gli sono stati sottratti; se non ha nessun accesso a questo mondo della
proprietà è necessario e giusto che quel mondo lo attacchi allungando le
mani sulle ricchezze, cioè rubando. All'interno di questa società,
anche se numericamente il problema sembra poco consistente, perché sono
in pochi tutto sommato ad essere rinchiusi, il ricatto del carcere pesa
su milioni di individui. La sopravvivenza si fa sempre più precaria,
basta pensare alle ragioni concrete per cui la maggior parte di quelli
che finiscono in carcere sono processati e poi condannati e rinchiusi;
si tratta, per la stragrande maggioranza, di piccoli reati, furti,
traffici che un ordinamento legislativo diverso potrebbe domani
considerare come non reati, e quindi cancellare in un sol tratto tutto
quello che per decenni è stato considerato crimine. E questo alla faccia
dell'universalità dei principi che dovrebbero valere in ogni luogo e in
ogni epoca. Le ragioni sociali del crimine sono talmente evidenti, che i
riformatori dello Stato devono far finta di metterci mano.
Ci sono stati diversi professori universitari, persone per bene,
generalmente di sinistra e con ottime intenzioni pedagogiche, che hanno
cominciato a parlare di abolizione del carcere all'interno di questa
società. Il carcere così com'è, in fondo, alle anime pie di sinistra non
piace, perché rinchiudere a chiave uomini e donne per lo più poveri è
una cosa sgradevole e degradante, tanto che questi bei personaggi sono i
primi a dire che la funzione rieducatrice della punizione è una
manifesta menzogna, perché il carcere non ha mai rieducato chicchessia;
al contrario -aggiungono - è una palestra del crimine: quelli che vi
sono entrati perché non potevano o non volevano lavorare non fanno altro
che organizzare meglio le loro attività criminali del futuro. Per tutti
questi illuminati, quindi, il carcere è qualche cosa di spiacevole, è
qualcosa che andrebbe modificato e se possibile cancellato da questa
società. Evidentemente, questi professori si rendono conto che, in una
società fondata su regole coercitive decise da una minoranza che domina
il resto della popolazione, il problema del castigo non ha soluzione. Se
il carcere potesse essere abolito, sarebbe solo per essere sostituito
con altre forme più sociali, meno legate a un'istituzione totale
(identificata in un edificio ben preciso, con funzionari ben precisi,
eccetera), come i braccialetti elettronici alle gambe, queste catene
pressoché invisibili capaci di creare una nuova figura: il detenuto
sociale. Tutto ciò non fa di certo aprire il carcere né porta meno
carcere nella società; semplicemente, fa diventare la società sempre più
simile a un carcere. Vanno in tal senso anche le proposte di
riappacificazione tra le vittime di determinati furti e i loro autori.
Ad esempio, i metodi proposti nella democrazia scandinava, piuttosto
progredita dal punto di vista di queste forme pulite di punizione
sociale, sono del tipo: se mi hai rubato lo stereo, invece di mandarti
in carcere -ospitalità forzata e forzosa che tra l'altro sono io a
pagare in quanto contribuente -, mi metto d'accordo con il tuo giudice e
magari una volta al mese vieni e mi rifai la facciata del palazzo, mi
dai una mano a tagliare le aiuole. Queste proposte, ideate da chi è
pagato dallo Stato per trovare soluzioni a quelli che sono problemi
creati dallo Stato, nascondono un fatto: all'interno di questa società,
il problema del carcere può essere semplicemente spostato, cioè si può
trasformare sempre di più la società in un immenso carcere in un
ergastolo sociale, ma non distrutto.
Esiste una differenza profonda fra la prospettiva di abolire il carcere
all'interno di questa società, cosa che significherebbe rafforzare il
dominio dando una vernice di rispettabilità a un ordine sociale
profondamente autoritario, e quella di distruggerlo - il che significa:
distruggere tutte le condizioni sociali che lo rendono necessario.
Questa è una cosa completamente diversa. Paradossalmente, la sola
prospettiva non utopica non è quella di pensare che possa esistere il
denaro senza il furto, il potere senza le rivolte, la colonizzazione
senza la resistenza; è quella di sovvertire alla radice le condizioni
che rendono tutto ciò necessario, sopprimere le classi e abbattere ogni
Stato.
L'ultimo punto a cui vorrei accennare, lasciandolo aperto per la
discussione, è questo: cosa significa battersi ora per una società senza
carcere, quindi non soltanto per distruggere le prigioni e il mondo che
le costruisce, ma anche per non costruirne mai più? Significa ripensare
in modo radicale non soltanto il problema della regola e dell'accordo,
ma anche il problema di come far fronte alla risoluzione dei conflitti
che in ogni contesto sociale - con buona pace di tutti i propagandisti
socialisti e anche anarchici del passato - si verificherebbero. Se
questa società, con il grado di putrescenza che ha raggiunto, non ci
lascia certo essere ottimisti sulle sorti di una trasformazione radicale
del mondo, ci pone il problema di come affrontare diversamente il
conflitto: non più con la mentalità ortopedica (non sei d'accordo con
determinate regole, non vado a rivedere le regole stesse, visto che le
abbiamo stabilite di comune accordo, dico semplicemente che sei nemico
di un modello, modello universalmente accettato e quindi un'altra volta
coercitivo, e se non ti metto in carcere, ti metto in qualche manicomio,
ti considero pazzo, ti faccio curare dalla scienza che ti rimetterà a
posto). Queste soluzioni sono altrettanto autoritarie e forse ancora più
totalitarie, perché se il carcere almeno considera il criminale
cosciente e risoluto nella sua identità di criminale, marchiare invece
chi trasgredisce le regole di questa società mostruosa come un malato
che ha bisogno di cure significa non soltanto metterlo nelle mani di
specialisti che lo tortureranno magari scientificamente e senza che si
veda il sangue, ma significa anche considerarlo incapace di determinare
per sé cos'è il giusto e lo sbagliato. Cosa significa battersi quindi
per un mondo senza sbarre, cosa significa quindi distruggere il carcere,
questa cosa abominevole che è chiudere a chiave degli uomini e delle
donne, per non costruirne mai più? E cosa significa legare questa
prospettiva di distruzione del carcere, in quanto distruzione della
repressione, della pace sociale, del Diritto, alle lotte attualmente
esistenti nelle carceri? Che cosa vuoI dire, in questa prospettiva di
distruzione del carcere, essere solidali con chi, attualmente detenuto,
si batte evidentemente non per distruggere tutte le prigioni (perché
questa sarà sempre il desiderio di una minoranza), ma per attenuarne gli
aspetti repressivi? Cosi come non esistono molti individui all'interno
della società a voler cambiare radicalmente le regole del gioco, non si
vede perché, per il semplice fatto di essere tali, i detenuti dovrebbero
raggiungere chissà quale consapevolezza per cambiare le sorti proprie e
altrui. E qui il problema si allarga di nuovo: le prigioni non sono
nient'altro che il concentrato di questa società, dei suoi spazi, dei
suoi tempi, del suo lavoro, delle sue concezioni urbanistiche (basta
pensare a tutti quegli edifici che, nell'arco di mezzo secolo, sono
stati via via manicomi, scuole elementari, carceri, ospedali senza che
si modificasse in nulla la loro struttura, cosa che la dice lunga sul
mondo in cui viviamo ...). Il carcere è ovunque, basta guardarsi
attorno: telecamere di sorveglianza ad ogni angolo, esattamente come
quelle che ci sono nelle carceri, controllo informatico sempre più
incessante, sempre più capillare nella sua penetrazione sociale, senza
dimenticare le sempre attuali divise di carabinieri e polizia, come
quelle qua fuori stasera. All'interno di questo mondo che è sempre più
simile a una prigione, cosa significa immaginare addirittura una società
senza gabbie e cosa significa, in quanto detenuti sociali, essere
solidali con altri che sono detenuti in senso stretto? Questi si battono
per dei miglioramenti parziali, così come nel resto della società le
lotte partono quasi sempre su basi rivendicative di miglioramenti
limitati. Ciò che fa la differenza, sono i rapporti che nascono nel
corso stesso della lotta, e i metodi che si usano. Per il resto, la
banalità delle loro cause immediate, diceva il filosofo, sono sempre
state il biglietto da visita delle insurrezioni nella storia.
Attaccando i mille nodi che fanno funzionare il carcere e il suo mondo,
noi stessi abbattiamo sempre più le mura di quel carcere personale che è
la rassegnazione.
Solo alcuni buoni interrogativi, come vedete, in un'epoca in cui abbondano le false risposte.
Massimo Passamani
5 dicembre 2000
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